Kumari, 1.200 km in bicicletta per salvare suo padre
Letto sul Corriere della Sera del 25 maggio 2020 – pag. 27
Di: Michele Farina
«È stata la disperazione». Con la franchezza dei ciclisti di altri tempi, dopo 1.200 chilometri e sette giorni lungo le strade dell’India, con il padre infermo in bilico alle sue spalle su un seggiolino di fortuna, la quindicenne Jyoti Kumari ha staccato sul traguardo anche il gruppone di tutti coloro che, in giro per il mondo, hanno «viralmente» lodato la sua grande cavalcata.
Anche la figlia e consigliera dell’uomo più potente del mondo, Ivanka Trump, dalla lontana America via Twitter ha salutato questa «bellissima impresa » (beautiful feat) «di resistenza e amore». Intendiamoci: di amore come di fiato deve averne avuto parecchio, Kumari, accettando di partire dalla capitale New Delhi alla volta del villaggio natale di Siruhully, distretto di Darbhanga, Stato di Bihar.
Per milioni di indiani bloccat i nelle città dal lockdown da coronavirus, il ritorno nelle zone rurali (dove è più facile sopravvivere per i costi della vita più bassi) è stato un calvario di cui avrebbero fatto a meno. «Non avevo altra scelta — ha raccontato la ragazzina quando la sua storia si è diffusa — Se non avessi pedalato, io e mio padre non saremmo sopravvissuti». Il padre lavorava New Delhi come autista di risciò a motore.
Un giorno ha la sfortuna di farsi male sul mototaxi. Non cammina, è immobilizzato. Non guadagna. Non paga l’affitto, il padrone di casa nel sobborgo di Gurugram minaccia di buttarlo fuori con la figlia. E ci si mette pure il coronavirus. L’unica speranza è tornare al villaggio, che la madre e le sorelle hanno raggiunto prima del lockdown.
Ma muoversi è una parola. I rari treni blindati per i pendolari sono un terno al lotto, «emio padre non era in grado di salirci». Unica speranza, la bici. Kumari propone al padre di comprare una bicicletta. Speriamo almeno che sia stata una sua scelta. D’altra parte, quale uomo potrebbe costringere una figlia a portarlo sul sellino per oltre mille chilometri? Nel Bihar, il loro Stato natale, quando Kumari era ancora piccola, le autorità erano orgogliose di un piano che permetteva alle bambine di andare a scuola. Grazie a una bici regalata dallo Stato. Forse i suoi polmoni sono frutto di quella esperienza?
Sta di fatto che così comincia questo incredibile Giro dell’India, a bordo di una bici da donna rosa. Sono strade brutte, piene di camion e pericoli, non ciclabili in mezzo al verde. Kumari pedala verso Est: il cibo e un giaciglio arrivano ogni tanto, dalla generosità degli sconosciuti. Chissà, forse c’è chi si appassiona all’impresa ciclistica di una ragazzina che arranca portandosi dietro un papà disabile.
Il caldo è atroce, ma Kumari pedala, pedala. Solo una volta un camionista le dà un passaggio. Un giorno, poi l’altro. Sfilano le città, il villaggio si avvicina. Una settimana fa, il traguardo. Non c’era folla ad aspettarla. Kumari ha ritrovato la mamma e le sorelle. Adesso lei e papà sono in quarantena a casa. Per un po’, niente bici.
I giornali locali cominciano a parlare di loro. La Rete fa il resto: quindici minuti e 1.200 km di celebrità. La federazione ciclistica indiana, che seleziona i corridori per le Olimpiadi, offre a Kumari un viaggio pagato per fare un provino a New Delhi. Non è chiaro se tornerà nella città da cui è fuggita. Sembra una storia da film, è arrivato pure l’elogio al miele di Ivanka Trump. Lei ripete: «Non pensavo che avrebbero parlato di me».
La storia di Kumari ci dice che ciascuno deve fare ciò che può per aiutare gli altri, e chi ha molto potere (un presidente, uno Stato) deve fare molto. In queste settimane decine di persone in India sono morte sulle strade del ritorno. Non c’è niente di beautiful nell’impresa di Jyoti Kumari, solo pedalate di disperazione.