Avvenire 11/04/2020
La diffusione del contagio sembra essere più forte dove l’inquinamento da polveri sottili è più alto, ma anche dove c’è una maggiore presenza di piccole imprese artigiane. Il lockdown necessario. Ma la risposta non dovrà essere la decrescita.
di Leonardo Becchetti
I virus non viaggiano da soli. Gli esseri umani sono i loro mezzi di trasporto. Con la globalizzazione la loro capacità di muoversi da un angolo all’altro del pianeta è enormemente aumentata. Così Wuhan che sembrava così lontana è arrivata a Milano in brevissimo tempo.
Qualcosa però ha rallentato la diffusione del virus che era in circolazione già da prima di marzo in altre regioni d’Italia e soprattutto nel Centro Sud. Non sono bastati la coppia di cinesi turisti a Roma, i bergamaschi in Sicilia e l’esodo dei milanesi di ritorno nelle città d’origine del Mezzogiorno per innescare focolai come quelli nati nel Nord del Paese.
La ricerca che ho realizzato assieme a tre studiosi di Roma Tor Vergata, Torino e Oxford (Gianluigi Conzo, Piero Conzo, e Francesco Salustri) parte dall’osservazione delle differenze rilevanti di diffusione del virus nelle diverse province del Paese e si domanda quali fattori possano averla influenzata.
La letteratura di riferimento da cui siamo partiti ci ha suggerito di guardare a quattro fattori principali: le decisioni di lockdown, la frequenza e l’intensità dei movimenti di persone, l’inquinamento e la temperatura.
Una prima evidenza importante è che la maggiore percentuale di microimprese e imprese artigiane a livello territoriale è correlata significativamente con maggiori casi positivi e maggiori decessi. La nostra interpretazione è che le imprese artigiane operano in proporzione molto maggiore in settori dove il passaggio al lavoro smart è difficile, temono maggiormente il rischio di fallimento in caso di chiusura prolungata.
Il nostro dato sottolinea la fragilità e il bisogno di sostegno e protezione a questa parte fondamentale della nostra economia. Artigiani e piccoli imprenditori che lottano per tenere in piedi un’attività produttiva sono di questi tempi eroici come i nostri medici ed infermieri impegnati in prima linea nella lotta all’epidemia. L’ipotesi di un ruolo significativo dell’inquinamento nasce dalle evidenze di numerosi contributi della letteratura medica in tempi non sospetti (prima dello scoppio dell’epidemia).
Questi lavori sottolineano come l’esposizione prolungata alle polveri sottili renda i polmoni più fragili e propensi a forme croniche d’infiammazione. Molti studi che trovano in diverse parti del mondo significative correlazioni tra intensità delle polveri sottili ed ospedalizzazioni d’emergenza per polmoniti suggeriscono che può essere questa una delle cause che trasforma una malattia polmonare da asintomatica a grave.
Le stime dell’impatto delle diverse variabili sui due mesi di dati giornalieri a livello provinciale su decessi e contagio suggeriscono che il virus ha trovato terreno fertile nella combinazione di mancato distanziamento sociale e scarsa qualità dell’aria.
Più in dettaglio i coefficienti delle nostre stime indicherebbero che la differenza tra province a più alte polveri sottili (in Lombardia) e a più basse polveri sottili (in Sardegna) è di circa 1.200 casi e 600 morti in un mese. Sotto ragionevoli assunzioni sul vero tasso di contagio e di letalità nel Paese questo dato implicherebbe un raddoppio del rischio di mortalità.
A risultati simili è pervenuto un gruppo di ricerca di Harvard che ha studiato il fenomeno nelle contee degli Stati Uniti. La decisione di lockdown comincia secondo i nostri dati ad avere effetto con un po’ di ritardo sui nuovi casi riducendo la combinazione esplosiva di esposizione di lungo termine alle polveri e frequenza dei contatti con altri esseri umani tra cui potenziali contagiati
I limiti temporali del nostro campione ci impediscono di trovare effetti del lockdown sui decessi in quanto questi, coerentemente con la letteratura in materia, si manifestano dopo 3-4 settimane rispetto all’avvio della misura (10-14 giorni per gli effetti sul contagio e 10-14 giorni per un contagio che purtroppo si trasforma in decesso).
Dobbiamo continuare ad avere pazienza dunque e non desistere dai nostri sforzi ed è prudente estendere il periodo di lockdown come annunciato ieri dal Presidente Conte. È nei prossimi giorni dunque che dobbiamo aspettarci che i nostri sacrifici inizino ad avere effetti consistenti sulla diminuzione dei decessi.
Il nostro lavoro non trova evidenze sul ruolo della temperatura, ma questo aspetto va approfondito nei successivi sviluppi che ci proponiamo di realizzare. Evidenze descrittive sulla diffusione del coronavirus negli altri Paesi del mondo indicano una minore diffusione in aree molto calde ed umide.
Nel periodo da noi osservato le condizioni climatiche nelle diverse regioni del Paese non variano così significativamente da poter testare quest’ipotesi. Difficile in casi come questo, dove non è possibile costruire un esperimento da zero, dimostrare inequivocabilmente nessi di causalità.
Ma le evidenze (comprese le nostre) raccolte in più discipline e in diverse parti del mondo lasciano nel complesso pochi dubbi e hanno importanti implicazioni nelle scelte di policy. In fondo nella vita reale se riteniamo che guidare ad alta velocità nei centri urbani renda probabile al 90% un incidente grave che mette a rischio la nostra vita e quella altrui scegliamo di evitare di farlo nonostante non ne siamo certi al 100%. Ovvero non aspettiamo il 100% di certezza prima di prendere decisioni. Molti dei fattori che hanno aggravato gli effetti del Covid-19 sono sotto il nostro controllo. Se guardiamo alle polveri più sottili (Pm2,5) solo il 6% dipende da movimenti atmosferici. Il 57% è prodotto dal riscaldamento domestico, mentre quote attorno al 10% ciascuna dalle modalità di trasporto, dalle fonti di energia e dalla produzione industriale ed agricola.
La risposta non è la decrescita, ma uno sviluppo resiliente che è innanzitutto interesse delle nostre imprese e del nostro sistema economico se non vuole andare in contro ad altre gravi paralisi e se non vuole vedere il valore dei propri asset deprezzato per la sola esposizione a questi rischi prima ancora che essi si materializzino.
La tecnologia ci aiuta.
Sono sul tavolo dei decisori politici molte proposte – smart work, efficientamento energetico, trasformazione dei sussidi ambientalmente dannosi (che ammontavano a 19 miliardi nel 2018) in incentivi alla riconversione in tecnologie sostenibili – che non paralizzerebbero l’economia ma metterebbero in moto un gigantesco green new deal che sarebbe la chiave di un nuovo modello di sviluppo in grado di coniugare creazione di valore economico, competitività, lavoro, sostenibilità ambientale, salute e conciliazione della vita del lavoro con quella di relazioni.
I risultati del nostro studio messi assieme agli altri citati suggeriscono che il modo più prezioso di usare le risorse economiche per la ripartenza è quello di una “green industry 4.0” che agevoli ed acceleri gli investimenti che favoriscono una riconversione produttiva e non che riduca l’esposizione a fonti inquinanti.
Il campanello è suonato, l’allarme è arrivato, sarebbe irresponsabile per le nostre vite, la nostra società, la nostra economia non trarne le conseguenze.